Tino Rusconi ha detto una volta “La mia pittura non è il figurativo, dove una mela non è una mela; né l’astratto dove la gente comune non capisce niente: la mia pittura nasce sul crinale di questi due modi di dipingere e di pensare la pittura “.
Rusconi non disegna la sua composizione sulla pagina del quadro per poi arricchirla e animarla col colore. Al contrario Rusconi parte da immense macchie colorate (talora, all’origine, di colori vivi, poi stemperati nell’unica tonalità ocra e scura) e su queste o meglio a partire da questi laghi colorati fa nascere paesaggi, sfondi e figure. Dentro uno scenario di sfondo, il pittore opera dunque con grande libertà inventiva, che gli permette di seguire le capricciose vie del ricordo, dall’affabula-zione lirica,dal buio alla luce, insomma e non viceversa. Da questo unico timbro coloristico, fondendo, aggiungendo e levando emerge la linea e il racconto in un sottile stenografico reticolo, ora gessoso ora seccamente inchiostrato.
E il quadro magicamente si compie, calcinato, ma non cupo, graffito, ma non disegnato. Pochi artisti sanno offrirci tanta forza di suggestione. Sanno raccontare tra omissione ed evidenza, sanno coniugare presente e memoria, evitando quasi sempre il tranello della cifra ripetuta o l’astuzia della bravura. A salvare sempre la nobile pittura di Rusconi è la sua ricchezza intima e lirica, forse lombarda, forse semplicemente indotta dalle inquiete condizioni esistenziali di questo inizio secolo. Un tempo, anche lui, indecifrabile come le tele di questo artista, perché sospeso tra memoria e utopia, fra speranza e disincanto.
Pier Francesco Listri
